lunedì, novembre 29, 2010

I sette pregiudizi sul lavoro che c'è


Se mai ci fosse stato bisogno di una prova sul campo delle teorie da Nobel sulla difficoltà di far incontrare ogni lavoro con il suo lavoratore eccola: ci sono 110mila posti che in Italia non trovano altrettanti occupanti disponibili (o capaci) a ricoprirli. O se li trovano, ciò accade con grande dispendio di tempo e risorse.
Diamond, Mortensen e Pissarides, gli ultimi vincitori del Nobel per l'Economia, forse – si parva licet componere magnis – la spiegherebbero con l'equilibrio dinamico della curva di Beveridge, vale a dire la rappresentazione cartesiana che, in ogni epoca e in ogni realtà, dimostra la difficoltà di far combaciare posti di lavoro disponibili con l'entità dei disoccupati.
Un Nobel a chi ha dimostrato, in sostanza, che l'incontro tra domanda e offerta di lavoro è sempre imperfetto.
Perché questo esercizio è cosa degli uomini e non della matematica. E lo si capisce se dagli assi cartesiani si passa alle persone e agli stati d'animo. Insomma, dietro ai 110mila tecnici meccanici, elettromeccanici, chimici, biologi o biotecnologi di cui le imprese avrebbero bisogno e non trovano c'è l'idea stessa che il paese ha avuto finora del lavoro. La sua idea di cultura del lavoro. Con valori e disvalori. E troppi pregiudizi. Eccoli.
1) Sono lavori di serie B o sottoccupazioni
Non ha senso allevare generazioni con il mito, ad esempio, della laurea in Scienza delle comunicazioni quando si sa che il mercato non è in grado di creare sbocchi occupazionali acconci. Vale più un diploma tecnico che si sposi con le richieste dell'eccellenza industriale del paese. In termini macro, è solo garantendo la base occupazionale a questi settori che si consente al paese di irrobustire il tessuto manifatturiero senza il quale anche il mondo dei servizi perde l'ancoraggio strutturale per svilupparsi.
2) Sono sottopagati
Un saldatore iper-specializzato che magari deve avere qualche rudimento di lingua straniera perché lavora nei cantieri sparsi per il mondo può guadagnare anche 2mila euro.
Non sono pochi gli avvocati che, a inizio carriera, accettano di lavorare per poco più di 5-600 euro, i nuovi entranti sono assai lontani dagli standard retributivi di chi li ha preceduti.
3) Non sono posti socialmente attraenti
È un problema di cultura: spesso le aspettative lavorative di un giovane le fanno ancora famiglie con il mito del bancario e del posto pubblico. O, peggio, della velina, intesa come scorciatoia suprema dell'affermazione sociale. Invece ieri sono arrivate provvidenziali le parole di Ennio Morricone: «Scegliete sempre la professione che vi interessa; senza amore e passione non c'è esito felice. Ma bisogna imparare anche a soffrire». L'Italia deve ancora superare una specie di complesso post bellico, ma lo sta facendo. Non funziona l'ascensore sociale: sale poco, ma soprattutto se scende non riesce a convincere i più che potrebbe anche risalire; in paesi dove il lavoro è sempre "un valore in sé" dietro a un autista ci può essere un ex finanziere, ma dietro a un finanziere di grido ci potrebbe essere un potenziale autista. Senza un particolare stigma sociale.
Il valore legale del titolo di studio spesso rappresenta una trappola sociale: anche chi ottiene a grande fatica una laurea ritiene di avere acquisito il diritto a un posto di lavoro di qualità superiore, ma il mercato la pensa diversamente. Così molti giovani finiscono nel vicolo cieco della disoccupazione giovanile.
Non c'è solo il mismatch delle competenze, c'è anche il mismatch tra ciò che crediamo di essere o vorremmo essere e ciò che il mondo pensa che siamo (o potremmo essere) effettivamente.
4) Non sono formativi
La formazione sarebbe la chiave per facilitare l'incontro tra domanda e offerta ma non funziona.
L'apprendistato dovrebbe diventare la forma contrattuale principale per l'assunzione dei giovani e tradursi nel vero contratto d'ingresso nel mondo del lavoro, agevolato per l'impresa e proficuo per il lavoratore che aumenta il suo rating professionale con lo scorrere dei mesi. È stato fatto molto per diffonderlo, ma ancora adesso è aperto lo scontro tra chi deve organizzare la formazione, fatto che blocca l'appetibilità e la riconoscibilità sociale di questi contratti.
La formazione potrebbe aiutare le piccole imprese, le più sofferenti nella ricerca di tecnici: non sono in grado di formarli al loro interno e si aspetterebbero scuole o enti di formazione più efficienti. D'altro canto, anche per il potenziale lavoratore la formazione è tutto.
Le imprese continuano a chiedere giovani con esperienza, una antinomia che crea frustrazione anche nei candidati migliori: se nessuno li assume non possono fare esperienza e se non fanno esperienza nessuno li assume.
Alla fine ciò crea un mercato del lavoro drogato e limitato a chi riesca a entrare nel circolo dei "professionalizzati": le imprese finora hanno preferito la corsa all'accaparramento del "tecnico bravo" tramite i rilanci in busta paga. Non è stata una scelta di sistema lungimirante. Aumentano però le iscrizioni agli istituti tecnici innovativi e questo fa ben sperare.
5) Non sono stabili
Soprattutto per alcune qualifiche del terziario, cresce la consapevolezza che si tratta di "esperienze" lavorative da abbinare a fasi limitate della propria vita: alcune occupazioni possono essere sempre più considerate fasi di integrazione al reddito, legate a periodi brevi della propria vita attiva.
6) Sono «old economy»
La manifattura, come anche l'agricoltura, cerca lavoratori in grado di assecondare rapidi mutamenti di business coniugati con l'innovazione. Le nuove tecnologie, legate allo sviluppo di internet ma anche all'espansione di una industria eco-compatibile creano professionalità ricercatissime e spesso incardinate su qualifiche "vecchio stile" declinate in modo moderno.
Se questo passaggio epocale viene ben comunicato ciò rende più attraente l'opportunità d'impiego anche per i giovani. È un problema delle imprese, è un problema delle strutture pubbliche e private che presidiano lo snodo dell'incontro tra domanda e offerta.
7) Non si vedono
Non funziona l'orientamento scolastico che fa comprendere a ciascuno le proprie attitudini professionali. Non è diffusa la pratica del "bilancio delle competenze" dal quale trarre indicazioni sul proprio futuro occupazionale.
In Italia solo il 5% dei giovani dichiara di "vedersi" occupato in un lavoro che comporti attività manuali mentre, ad esempio, in Svezia risponde allo stesso modo il 40% dei loro coetanei.
Non c'è il sigillo culturale negativo che invece in Italia si fatica a cambiare: eppure da noi la manifattura è strategica e predominante (siamo il secondo paese d'Europa), in Svezia marginale e poco incisiva. Un paradosso. Uno dei tanti in questa "disunione europea".
Alberto Orioli
Il Sole24Ore del 20/11/2010

lunedì, novembre 01, 2010

Cosa sono gli RSS?

Ciao Ragazze,
la giornata OPTA, il progetto della Regione Emilia Romagna, Aster e Unioncamere Emilia Romagna, mi ha spinto a lavorare di più sulle ICT.
Primo passo importante, dare un senso ad alcuni dei misteriosi concetti che ritroviamo su internet.
Voi sapete cosa sono i FEED RSS? Quel simbolo arancione che troviamo spesso nei siti e nei blog?

Ebbene, sono preziosissmi perchè consentono di tenersi aggiornati sui nuovi articoli, post, o altro che compaiono sui nostri siti preferiti. Per spiegare meglio di cosa si tratta, pensate a quando vogliamo controllare se sui siti, portali o blog che frequentiamo più spesso per lavoro o studio o curiosità, sono comparse delle novità, bandi, gare, informzioni.
Per restare aggiornati dobbiamo andare a controllare i siti direttamente e se non ci sono novità abbiamo solo perso tempo. Con i feed RSS, succede il contrario, se vengono pubblicate delle novità, ci avvisano.
Fantastico no?
Per capire bene come funziona, guardatevi il video.



Donne e tecnologia non è un ossimoro!

venerdì, ottobre 22, 2010

WOMENOMICS: QUANDO LE DONNE FANNO L’ECONOMIA



Alla ricerca di un “bilinguismo di genere” nel mondo imprenditoriale per valorizzare il vantaggio competitivo delle donne. Wittenberg-Cox: «La parità non basta più. Bisogna valorizzare la differenza delle donne. La rivoluzione pacifica e silenziosa è cominciata.»

Se Lehman Brothers fosse stata invece Lehman Sister sarebbe cambiato qualcosa?
Possono le donne, con il loro lavoro, fare la differenza nelle dinamiche di sviluppo di un Paese?
Di sicuro ne è convinta Avivah Wittenberg-Cox, amministratore delegato della società di consulenza di genere 20-First e autrice, insieme a Alison Maitland del libro “Rivoluzione Womenomics. Perché le donne sono il motore dell’economia”, oggi ospite del Festival dell’Economia di Trento per parlare delle potenzialità della forza lavoro femminile. A discuterne con lei, nell’incontro a cura de "Il Sole 24 Ore" alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, Daniela Del Boca, docente di Economia all'Università di Torino e direttore del Centro CHILD oltre che redattrice de "lavoce.info" e Paola Profeta, docente di scienza delle Finanze all’Università Bocconi di Milano.
Womenomics è il nome di una nuova corrente di pensiero economica che sostiene il valore aggiunto del lavoro delle donne per far crescere l’economia. Il volume di Avivah Wittenberg-Cox, con un taglio positivo e propositivo, racconta storie di successo femminile per offrire uno spaccato sulla partecipazione delle donne all’economia mondiale e sulla riduzione dei divari di genere e crescita economica. A cominciare dalla tesi di fondo: se il divario di genere fosse ridotto, si avrebbe come risultato una consistente crescita economica con un aumento del pil del 13 % in Italia e ancora più in Europa. Si tratta però di una rivoluzione ancora incompiuta perché nelle imprese ancora non si è sviluppato un “bilinguismo di genere”, un modo per comprendersi e trovare un terreno comune, valorizzando la diversità e le potenzialità delle donne.

«Nel nostro Paese – ricorda Paola Profeta – si assiste ad un grande paradosso. A differenza di quanto avviene ad esempio nei Paesi scandinavi, le donne italiane, infatti, pur stando di più a casa (il tasso di disoccupazione femminile è tra i più alti in Europa) fanno meno figli. I pregiudizi e gli stereotipi permangono. Ad esempio, il concetto di maternità, che secondo le aziende crea ancora ostacoli alla carriera delle donne, è ancora preponderante su quello di genitorialità. I primi segnali di ripresa però sono incoraggianti. Nella “guerra dei talenti” le donne hanno buone carte in mano per superare il divario di genere, perché hanno delle performance scolastiche sempre migliori e conquistano sempre più posizioni nel mondo del lavoro».

«Che il divario di genere sia ancora marcato e che la questione interessi ancora troppo poco gli uomini – ha commentato Avivah Wittenberg-Cox - lo si vede anche nel pubblico, attento ma prevalentemente femminile che partecipa in sala all’incontro di oggi. La rivoluzione però è cominciata, nonostante tutto, pacifica e silenziosa. Il capitalismo finora è stato gestito da una metà della popolazione, ma le cose stanno cambiando perché oggi, nel ventunesimo secolo, non esistono più questioni squisitamente femminili. Anche e soprattutto in campo imprenditoriale, perché le donne sono una grande leva per lo sviluppo. E le aziende che sapranno cogliere questa opportunità potranno godere dei vantaggi che ne verranno. Anche se questo non significa prescindere da serie valutazioni di carattere economico. Nel mondo le donne ora rappresentano il 60% dei laureati (compreso in Iran e Cina) e per le economie come le nostre che dipendono sempre più dalla mente che dai muscoli questa è la vera rivoluzione. Rinunciare ad avere figli è un modo di manifestare questa rivoluzione. Soltanto i Paesi che riusciranno a sostenere questa rivoluzione sapranno sopravvivere al crollo demografico. E l’Italia in questo senso, se non farà qualcosa vedrà presto la sua popolazione dimezzata».

«Un altro aspetto riguarda il mercato: le aziende hanno lavorato nella convinzione che la maggior parte dei loro clienti fossero uomini. Nell’80% dei casi, invece, le decisioni di acquisto sono prese dalle donne. E persino la scelta delle automobili è in 2 casi su 3 in mano alle donne. Si tratta di opportunità di mercato estremamente appetibili. È strano però che resistano ancora, nonostante tutto, ad esempio le pubblicità a sfondo sessuale. Un altro segreto di crescita (molto sfruttato dalla Apple per il lancio dell’ultimo Ipad) è che quando si pensa a nuovi prodotti anche per le donne, di solito questi hanno più successo anche tra gli uomini. Del resto – ha aggiunto Avivah Wittenberg-Cox - le donne, nella seconda parte del ventesimo secolo hanno chiesto di essere trattate al pari degli uomini. Ma questo non basta più: le donne devono essere trattate egualmente me anche diversamente, perché le donne hanno modificato anche la propria concezione di sé.

Occorre promuovere un nuovo linguaggio, un bilinguismo di genere. Una leadership basata sull’equilibrio di genere garantisce un maggior successo di crescita: lo ha dimostrato la crisi globale in cui ci troviamo. Tra le 500 aziende di maggior successo e più promettenti nel mondo hanno a capo delle dirigenti donne. La vera sfida oggi è la leadership, non bisogna farsi intrappolare dalla convinzione che sia un fatto di cultura. Una sfida che, ad esempio in Spagna, è stata affrontata con buoni risultati dal governo Zapatero e che in Germania, con l’elezione di Angela Merkel ha visto un nuovo, importante traguardo raggiunto. Sono convinta che riguarderemo questa prima parte del ventunesimo secolo come un punto di svolta, in cui le anche aziende e il mondo dell’economia hanno preso coscienza della necessità di cambiare e valorizzare le donne come meritano».

Per saperne di più: http://2010.festivaleconomia.eu/